Cultura

Dantedì: nel secondo canto dell’Inferno il poeta lotta contro l’angoscia che opprime l’uomo

Oggi, 25 marzo, è il Dantedì, giornata delle celebrazioni in onore del poeta e narratore Dante Alighieri, istituita dal Governo italiano nel 2020 su proposta dell’ex ministro Dario Franceschini. Come negli ultimi quattro anni, dunque, Dante si trova al centro di numerose e diverse iniziative nazionali. (Per chi volesse un approfondimento sul significato del 25 marzo può cliccare QUI e leggere i nostri precedenti articoli). Quest’anno ci concentreremo infatti sul II canto dell’Inferno, grande canto del dubbio e dell’angoscia che attanagliano l’uomo, posto appunto all’inizio della storia raccontata nella Divina Commedia.

Dante, pellegrino che ha appena cominciato il suo viaggio, è uscito dalla selva oscura e, dopo aver trovato sbarrata la strada dalle tre belve feroci, incontra l’anima di Virgilio, il grande poeta latino che sarà la sua guida e che è venuto a soccorrerlo. Virgilio gli ha portato una notizia incredibile: nonostante ancora mortale, a Dante è stata fatta una concessione dall’alto che lo rende unico (o quasi) al mondo: il poeta potrà infatti compiere un viaggio con il proprio corpo attraverso i tre regni dell’Oltretomba (Inferno, Purgatorio e Paradiso, destinati appunto alle anime soltanto dopo la morte). Entusiasmato in un primo momento all’idea di avere ottenuto un privilegio tanto grande, poco prima di intraprendere il viaggio Dante sprofonda però letteralmente nello sconforto più cupo, e qui traspare tutta la sua umanità. È a questo punto che il secondo canto ha inizio.

Come si diceva, Dante è in primo luogo un uomo, e in quanto tale alimenta incertezze sulle sue reali capacità di sostenere l’impresa che si appresta ad affrontare. Lo scoraggiamento gli toglie il respiro, tanto che non può fare a meno di rivolgere a Virgilio una domanda che lo attanaglia:

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.

(Inf., II, vv. 31-33)

«Ma io – chiede Dante – perché devo compiere questo viaggio? Chi lo ha concesso? Io non sono Enea né Paolo. Nessuno mi riterrebbe degno di una simile impresa»

Il problema di Dante quindi è palese: in passato, solo Enea (come si racconta nell’Eneide) e San Paolo (com’è raccontato nella seconda lettera ai Corinzi) erano stati nell’aldilà da vivi. Ma i viaggi di Enea e San Paolo avevano avuto le loro immense ragioni: Enea avrebbe dato inizio alle stirpe romana e dunque all’Impero, garante della stabilità del mondo; San Paolo avrebbe invece portato in terra testimonianza reale della salvezza dopo la morte, confortando l’uomo nella sua fede.
In questi versi, insomma, Dante manifesta un’indole vulnerabile, un sentimento non estraneo a quello di qualsiasi altro uomo timoroso di fronteggiare le sfide che la vita gli presenta, in cui chiunque può identificarsi. Quante volte infatti rinunciamo a cogliere le opportunità che ci si presentano perché non crediamo abbastanza in noi stessi? Quante volte evitiamo di cimentarci in qualcosa di nuovo perché sentiamo di non esserne all’altezza? Quante volte scommettiamo non su noi stessi ma contro di noi? Ecco, questo è quello sente Dante in quel momento.

E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta
.

(Inf., II, vv. 37-42)

«E come colui che smette di volere ciò che prima desiderava – dice Dante – e per il sopraggiungere di nuovi pensieri cambia idea al punto che si allontana totalmente dal proposito iniziale, in questo stato mi ritrovai io in quella costa immersa nell’oscurità, perché a forza di pensare distrussi già nella mia mente la possibilità di intraprendere quell’impresa che avevo cominciato così prontamente»

E allora Virgilio è costretto a spiegargli come stanno veramente le cose: Dante non deve temere nulla, perché il suo viaggio è stato concesso nientemeno che dalla Vergine Maria, l’unica in grado di rompere la severa legge del Cielo stabilita da Dio (Dante teme infatti di compiere il viaggio per non valicare quei limiti che Dio ha imposto all’uomo). La Vergine è stata mossa dalla pietà: lo sconforto profondo di Dante, il suo essersi perso nella selva (e cioè essersi smarrito nelle tempeste della vita, nelle tentazioni) l’ha mossa così tanto a compassione che si è attivata per salvarlo. Dal suo trono celeste la Vergine ha chiamato allora Santa Lucia, a cui Dante in vita era molto devoto, e quest’ultima ha chiamato a sua volta Beatrice, la donna che Dante ha perdutamente amato in vita, e che è morta molto giovane. Beatrice scende dal Paradiso (la cosiddetta Rosa dei beati) e arriva all’inferno, dove incontra Virgilio. E a Virgilio Beatrice lascia il compito di guidare Dante, gli raccomanda la vita del poeta spiegandogli che questo volere viene direttamente dal Cielo. Non solo: Beatrice rivolge a Virgilio quasi una vera e propria supplica:

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura
;

e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito
.

Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata
.

(Inf., II, vv. 61-69)

«il mio amico, una persona a me estremamente cara e non amico tanto per – dice Beatrice a Virgilio – è bloccato in quella costa deserta e non può più proseguire il suo cammino, tanto che sta tornando indietro, nella selva. E ho paura che sia già troppo tardi per lui, che io mi sia mossa troppo tardi per salvarlo dopo avere appreso quello che di lui si dice in Cielo. Adesso vai da lui, e con la nobiltà della tua parola e con tutto ciò che può servire a salvarlo aiutalo, così che io sia confortata».


Beatrice ha insomma tanto a cuore la salvezza di Dante.
Dopo che Virgilio ha dunque riferito al poeta come stanno veramente le cose, prova a rincuorarlo, a tirarlo su, proprio come accade a qualunque persona fortunata che abbia al mondo qualcuno accanto che le voglia bene. Virgilio si rivolge a Dante dicendo:

Dunque: che è perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai
,

poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?”

(Inf., II, vv. 121-126)

«Ebbene, che cosa ti prende? Perché te ne stai fermo? Perché lasci tranquillamente che tanta viltà domini il tuo animo? Perché invece non sei colmo di coraggio e fiducia, dopo che ti ho appena detto che tre donne beate e sante sono accorse in tuo aiuto dal Paradiso e le mie parole ti promettono così tanta speranza?»

Al sentire queste parole Dante, oppresso fino a quel momento dallo sconforto, schiacciato dal desiderio di tornare indietro, quasi di accontentarsi paradossalmente di rimanere nella selva anziché di iniziare un vero percorso di rinascita, si rincuora. E a questo punto il poeta fiorentino ci lascia alcuni dei versi più belli e intrisi di speranza della storia della letteratura mondiale:

Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,

tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca
:

(Inf., II, 127-132)

«Come i piccoli fiori, ricurvi e chiusi per il freddo della notte, si drizzano sul loro stelo e si aprono al mattino dopo che la luce del sole li illumina, così io mi risollevai dalla mia forza debole e affranta, e il mio cuore si riempì di così tanto coraggio che io cominciai a parlare come una persona fiduciosa e determinata»

Dante è quindi pronto a iniziare il suo cammino nei tre regni dell’Oltretomba. Sarà un percorso arduo, dove sperimenterà la sofferenza, il travaglio, il dolore, la pietà, ma anche il perdono, la speranza, il mistero. Ma ancora prima che la storia abbia veramente inizio l’Alighieri ci ha già lasciato delle lezioni profondissime. Se smettessimo per un attimo di pensare a Dante solo come un poeta e considerassimo anche l’uomo che è stato non avvertiremmo più la distanza dei sette secoli che separa le nostre esistenze dalla sua. Cosa si può ricavare dunque soltanto da questo secondo incipit della Commedia? Tirando le fila, potremmo dire che il poeta ha già tracciato la storia dell’uomo senza cominciare a raccontare davvero la sua di storia, e cioè: non ha senso abbattersi prima ancora di cominciare un’impresa, per quanto difficile e insormontabile essa ci appaia, perché l’aiuto che potremmo ricevere sarà eguale se non superiore all’ostacolo; dovremmo sforzarci di guardare oltre la soglia di ciò che è comprensibile e misurabile: dobbiamo rivolgere gli occhi al mistero, credere nell’invisibile, perché credere in qualcosa, al di là della sua mera esistenza, può aiutarci a trovare la forza interiore di cui avevamo bisogno; dobbiamo amare tanto nell’arco della nostra vita perché quell’amore in qualche modo ci verrà sempre restituito; dovremmo poi amare la poesia e la letteratura in genere, perché i libri possono davvero cambiare la vita delle persone. E, infine Dante ci insegna che la vita ha senso solo se ci si muove, se si intraprende un percorso, se non si rimane fermi nei propri errori, ma si cerca invece di riparare al danno commesso, sacrificando sudore, lacrime e sangue.

Vincenzo Santagati Elisa Cantone

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